MATTIA BOSCO / FIORI VIOLENTI

Mattia Bosco si cimenterà con i grandi temi della forma e della materia, assoluti protagonisti di questa mostra, nel tentativo di riscontrare una continuità o un contrasto tra la tangibilità delle cose e la nostra stessa corporeità.


Dal 21/03/2015 Al 23/05/2015

Una foresta di tronchi e fusti, che paiono quasi resti di un colonnato greco, come evocato da Disordine corinzio, una delle opere del percorso, andrà a ricreare all’interno delle antiche sale della tipografia una cattedrale di ossa vegetali, così come le intende Mattia Bosco, “ultimi fiori” che si dischiudono con un gesto violento, quello dello spezzare, mostrando tutto il proprio intimo mistero fatto di luce accumulata da queste travi nel corso degli anni. Le linee spezzate e chiuse formano dei triangoli, un simbolo sacro nato da un atto di forza compiuto dall’artista sul legno stesso, liberando la luminosità in esso contenuta e svelando così il “non visibile”, la vita che si cela all’interno degli alberi.

Come ben ci ricorda Mattia Bosco <<Gli alberi seguono una legge precisa secondo la quale si sviluppano in infiniti modi, ma tutti sono ancorati al suolo, non si può dare un albero senza radici, l'albero è sviluppo verticale a partire da un punto, non può muoversi da lì se non ramificandosi, bilanciando i rami che cercano la luce con quelli che sono nel buio della terra>>.

Questo fenomeno è descritto dalla scienza proprio come “Fototropismo” che, prendendo in prestito le parole del grande matematico, filosofo e scienziato Charles Sanders Peirce, si può poeticamente riassumere come <<un ultimo slancio del legno, come materia viva, slancio cui corrisponde l’uomo con il suo fototropismo verso la verità>>, un istinto innato dunque, che coinvolge anche la natura umana.

Quattro sono le giovani voci di spicco del panorama letterario che sono state invitate dalla curatrice Elena Dal Molin a raccontare le opere di Mattia Bosco: Benedetta Tobagi, giornalista, scrittrice e membro del CdA Rai, Orazio Labbate, autore di Lo Scuru, candidato al Premio Campiello 2015, Maurizio Torchio, autore del romanzo Cattivi, e Alcide Pierantozzi, già autore di Uno in diviso, L’uomo e il suo amore e, prossimamente, in uscita con Tutte le strade portano a noi.

Insieme a loro, l’ormai preziosa e amichevole presenza del critico Luigi Meneghelli che, anche in quest’occasione, porterà un proprio contributo alla lettura delle opere di Bosco.

L’evento espositivo sarà inoltre occasione per presentare un progetto di intervento permanente, pensato ad hoc per la struttura della sede di Atipografia,  per cui l’artista ha scelto di utilizzare un altro pregiatissimo elemento naturale: il marmo. Questa pietra andrà, infatti, a modificare l’ampia terrazza della sede di Atipografia attraverso un lavoro di work in progress che si svilupperà durante tutto il periodo della mostra e oltre, per il quale l’Associazione sta attualmente raccogliendo fondi.

Se per Brancusi “la scultura è acqua”, per Mattia Bosco il gesto compiuto dall’artista che lavora la materia assume anche una fondamentale e imprescindibile componente temporale.

La pietra, che conserva su di sé il passaggio di ogni singolo istante, si rivela agli occhi dell’artista come “tempo allo stato solido”, un libro dalle pagine sedimentate.

Secondo l’artista la scultura diventa dunque <<un modo di affrontare questa chiusura, di dissigillare il mondo, di scalfire la sua carne, di tentare una riscrittura là dove non possiamo leggere. Si scrive per cercare di leggere, di decifrare>>.

Ed ecco che il tempo dell’uomo scultore si sovrascrive a quello della pietra, che lo accoglie, conservando però intatta dentro di sé la memoria storica del mondo: <<Il tempo passato, il tempo presente, il tempo futuro: la pietra, l'uomo, il robot. Questi sono gli scalpelli che uso>>.

L’opera proposta da Bosco, dunque, vuole proprio insistere su questo paragone tra gesto dello scultore e movimento dell’acqua che lambisce la pietra: come quest’ultima imprime ad essa la sua forma eterna, mantenendo così la propria presenza anche quando sarà completamente evaporata, così il segno di ciò che ha lavorato, come l’acqua, sarà sempre visibile, anche in assenza di chi l’ha compiuto.


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